Sono nati per semplificare il lavoro e la comunicazione tra genitori di una stessa classe: quello che una volta erano le telefonate a catena per avvisare di riunioni con i professori, assemblee e molto di più ora sono diventati messaggi sul gruppo WhatsApp per arrivare, in tempo reale, a tutti. Eppure a sentire una mamma, che inizialmente non voleva dare il suo numero all’amministratore del gruppo della classe di suo figlio, ora si è ritrovata iscritta in questo gruppo e fagocitata da miliardi di messaggi che “ sembrano incuriosire come quelli di gossip”.
“Avevo già avuto delle pessime esperienze col gruppo degli Orsetti, quando il mio idolo era diventata una mamma che aveva abbandonato brutalmente il gruppo senza voltarsi indietro. – confessa la signora -. Avevo anche fatto parte del gruppo del coro, che la direttrice del coro stesso – più volitiva di tanti presidi – era riuscita a far chiudere, perché con i suoi contenuti demenziali rovinava l’immagine dell’istituzione” .
Eppure sembra che non ci si possa staccare o non inserire nei gruppi di classe per non sembrare la mamma snob di un alunno.
“ Al di là delle risposte che mi mordevo le dita per non scrivere, – spiega la mamma – la prima cosa allarmante che ho realizzato è che l’invadenza della mamma digitale annullava i tentativi di responsabilizzazione dei bambini da parte delle insegnanti: la maestra di IC non utilizzava un orario scritto per vedere se i bambini si sapevano orientare tra i giorni della settimana; e dava dei compitini a voce (come raccogliere le foglie cadute) per mettere alla prova la loro memoria. Stava funzionando, ma c’erano valanghe di commenti e risposte allarmanti delle singole mamme : un delirio”.
Accanto al dramma vero della deresponsabilizzazione dei figli, c’è il dato oggettivo della sconfinata vanità dei genitori (che dilaga a social unificati), sommato alla mancanza di sensibilità nel selezionare i contenuti condivisibili con la comunità.
Alcune mamme allegano ripetutamente immagini dei loro figli vestiti da Vogue bambini e colti in attività fantasmagoriche e poi scrivono «ho sbagliato chat». Una volta, due, tre. Poi qualcuno ci casca e commenta.
Seguono infiniti accordi per scambiare lo sticker numero 1000 con lo sticker dell’ultimo Avenger, per completare finalmente la sesta collezione di Marcolino. E così il gruppo di scuola diventa gruppo di tutt’altro.
“Un altro filone è quello degli allarmismi – commenta ancora la mamma – Stamattina passavo PER CASO [stalker!] davanti a scuola durante la ricreazione e mio figlio mi ha raccontato che Tizia [nella fattispecie mia figlia] è caduta e si è spaccata i denti. Ma non quelli da latte! I definitivi!” [io non ho perso la calma: sapevo che le dondolava un incisivo, e che le chat sono amplificatori di catastrofi: alla fine, le era solo caduto il dentino durante il pasto.] Non manca mai il giallo della mamma professoressa di liceo, la quale però 1) porta il figlio a scuola quando la scuola è chiusa; 2) non capisce la consegna di un compito sulle vocali; 3) si dimentica di firmare l’autorizzazione per la gita e, quando il figlio le riferisce le consegne della maestra, scrive su WhatsApp: 4) «Michi ha detto che bisognava sentire se l’acqua è ruvida o liscia». Ma dico, vai a fare una tac a Michi, non perdere tempo a scrivere nel gruppo della IC!
C’ è un papà, che quando si esagera viene fuori dal suo guscio e invoca la serietà nel gruppo.
Parlare di frivolezze dal vivo, lamentarsi dei compiti al bar, ha una giustificazione: in chat, no.
“All’inizio ho pensato che il problema legato alle chat potesse essere solo un problema di scarsa empatia: persone che dal vivo parlano troppo e troppo leggermente tendono a passare il segno anche nelle conversazioni virtuali. Ma poi ho pensato che non è così. Parlare di frivolezze dal vivo ha una giustificazione: vince la timidezza, rompe il silenzio, intrattiene senza dover entrare troppo nel profondo. Insomma, se al bar si può dire “però, quanti compiti!”, in chat non si può. Se fuori dalla piscina si può confidare “che emozione vederlo fare la paginetta di A!”, non si può prendere in mano il telefono e digitare una frase simile a venti persone. E poi, dal vivo è sempre possibile schivare la logorroica di turno, mentre in chat non c’è modo di porre un limite fisico alla valanga di stronzate che un estraneo può riferirti contro la tua volontà. E no: non basta silenziare il gruppo per ritrovare la calma”.
Il cuore della questione – secondo la mamma di un alunno di prima elementare e secondo noi tutti – è uno solo: la mancata educazione digitale.
Alcune insegnanti in gamba, oggi, creano dei social network chiusi ai propri alunni perché postino contenuti durante le vacanze: lo scopo del progetto è insegnare ai bambini cosa è il caso di condividere e se e come è il caso di commentare.
Un gruppo virtuale di genitori dovrebbe essere uno spazio istituzionale e civile, dove scambiare informazioni preziose, oggettive e utili a tutti.
“Sono grata alle mamme della classe dell’altro figlio, che utilizzano ancora la “vecchia” mail per le uniche comunicazioni vere: cioè pidocchi, consegna pagelle, raccolte soldi. Sono così grata che quando le incontro per strada non nego mai loro il tempo di un caffè”.