Urla, botte, schiaffi, lividi, vergogna, sensi di colpa.
Ma anche silenzio, omertà, indifferenza.
E infine perdono, pace, normalità (apparente) che dura lo spazio di un mattino, fino alla volta successiva.
Più grave, più dolorosa, con segni difficili da mascherare.
Preludio, spesso, di una fine senza ritorno.
Così è stato per la professoressa di Scalea, in provincia Cosenza, Ilaria Sollazzo, barbaramente uccisa nel 2022, con 5 colpi di pistola sparati al volto dal marito che, pochi istanti dopo il femminicidio, rivolge l’arma contro se stesso e si toglie la vita.
Perché Ilaria lo aveva lasciato, perché aveva detto basta ai tradimenti, all’assenza, all’indifferenza e perché aveva scelto di ricominciare da sé stessa, da sua figlia, dal suo lavoro.
Perché i segnali di un femminicidio non sempre passano dalla violenza: alcune volte, come nel caso della professoressa di Scalea, sono dettati dal silenzio, dall’indifferenza, dai tradimenti, continui e ripetuti in un ambiguo gioco di dolore e richieste di perdono: che ti fanno credere che finalmente sarà l’ultima volta.
Amori sbagliati, pericolosi e distruttivi che annientano la donna, le sottraggono forza e bellezza cancellandone, troppo spesso, la vita.
E i dati, purtroppo, parlano chiaro: nel 2022( ultimo dato disponibile) l’Istat certifica che il 92,7 per cento degli italiani uccisi è ucciso da italiani.
E questo fa a pugni con la dichiarazione del ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara che sostiene:
“L’aumento dei femminicidi in Italia è causato anche da forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti da una immigrazione illegale”.
Secondo i dati ufficiali, gli stranieri autori di femminicidi negli ultimi anni non erano clandestini ma quasi tutti residenti in Italia da anni e produttivi in termini di lavoro. Tra loro: due ingegneri, un docente universitario, un militare statunitense, un manager della Nestlé, un prete.
Nel caso di Ilaria, poi, il marito era italiano con un lavoro e un’arma regolare: era guardia giurata.
“Per combattere la violenza di genere – ha dichiarato qualche giorno fa al Sole 24 ore la presidente della Commissione parlamentare di inchiesta al femminicidio Martina Semenzato – è necessario un patto di corresponsabilità che coinvolga le famiglie la scuola la società civile e insieme la politica. Per destrutturare la visione maschile di possesso nei confronti di una donna dobbiamo riappropriarci dei modelli genitoriali dei valori e del rispetto. La scuola, in modo particolare, ha un ruolo fondamentale nell’insegnare la cultura del rispetto”.
“La scuola è il primo luogo dove si costruisce il rispetto e si educa alla parità – ha spiegato la presidente di Irase Nazionale Mariolina Ciarnella -. È qui che ogni bambino e bambina impara a conoscere il valore della dignità, della libertà e del rispetto reciproco. È qui che si piantano i semi di una società più giusta, più consapevole, libera dalla violenza di genere”.
“La lotta contro la violenza sulle donne parte dai banchi di scuola. Educare al dialogo, alla tolleranza e al rispetto non è solo un dovere, ma una responsabilità che ci appartiene tutti, come docenti, formatori e cittadini”. Ha concluso la Ciarnella.
Intervenite. Non chiudetevi nell’indifferenza perché il no alla violenza passa anche dalla solidarietà, e dal cambiamento. A cui la protagonista della nostra storia, la professoressa di Scalea era giunta, ma è stato troppo tardi.